Transessualità

I transatlantici ci portano da una sponda all’altra del Atlantico.
Le transazioni ci fanno superare le barriere di un contenzioso.
La transessualità ci fa superare il limite del sesso.
Perché ci sentiamo respinti dalla transessualità?

Perché è ‘contro natura’. Ma non sono poche le specie animali ermafrodite o di sesso variabile nel tempo.
E, se il fenomeno non è raro anche nella specie umana, perché dichiararlo ‘contro natura’? Chi può arrogarsi il diritto di giudicare ciò che è naturale e ciò che non lo è?

Solo chi fosse fuori dalla natura. Ma chi lo è?

Lasciamo quindi perdere il tema della ‘naturalità’ e ammettiamo che il nostro rifiuto sia essenzialmente culturale. Possiamo senza difficoltà immaginare una cultura non ostile verso la transessualità (come verso la omosessualità, addirittura verso la pedofilia), in altre parole una cultura disinibita sessualmente, senza tabù. Forse ci stiamo avviando verso una tale cultura. Per raggiungerla dovremmo però liberarci dai ‘padroni del sesso’, le religioni (almeno alcune) e le morali.

Ma transessualità non è solo un problema di codici (morali, religiosi, civili); è anzitutto un problema di identità. Ma uno è ciò che è, mescolanza variabile di elementi maschili e femminili. In questo senso ognuno di noi è in qualche misura transessuale. E, se è più femmina che maschio o più maschio che femmina è semplicemente un dato che lo riguarda e non qualcosa da valutare positivamente o negativamente. Semmai una mescolanza dei caratteri può risultare più vantaggiosa nell’affrontare la complessità delle situazioni reali che non una ‘monosessualità’ esclusiva.

C’è comunque la questione fisiologica, indubbiamente la più difficile da affrontare e risolvere, quando è possibile. La chirurgia plastica ha fatto certamente grandi progressi negli ultimi anni, grazie anche alla sperimentazione cui molti transessuali si sono sottoposti, più o meno volontariamente; ma i risultati parziali ottenuti sono ancora lontani dal corrispondere alle attese dei richiedenti, troppo definitivi sono i caratteri sessuali primari nei mammiferi.

È abbastanza strano che l’opinione comune accetti con commiserazione la malformazione di un braccio o di una gamba e rifiuti quasi come scandalosa una malformazione dell’apparato sessuale. La cosiddetta ‘malformazione’ –che altro non è che una ‘formazione’ meno probabile– può anche non riguardare la forma esteriore dell’individuo ma solo la distribuzione interna degli ormoni ed ecco i fenomeni dell’omosessualità, transessualità come anche tutte le gradazioni intermedie della normalità. E tanto meno si giustifica l’ingerenza della morale e delle religioni in questioni che riguardano unicamente l’Io individuale. Ma se è proprio questo Io a sentirsi scisso, a non riconoscersi pienamente, e questo perché gli manca il riconoscimento esterno, non dovrebbero proprio la morale e la religione per prime offrigli questo riconoscimento allo stesso titolo che a qualunque altro?

Se la transessualità è una malattia, chi è il malato, il transessuale nella sua ‘naturalità’ o chi di questa sua ‘naturalità’ non si accorge?

Mercato

Per parlarne tecnicamente –e forse è questa l’unica maniera ‘seria’ di parlarne– occorrerebbe avere delle competenze specifiche che nessuno di noi del CMC possiede. Ne consegue che faremmo bene a tacere sull’argomento. Poiché tuttavia il modello mercato pervade ormai quasi tutti gli aspetti della quotidianità e di questa siamo tutti partecipi, si deve riconoscere a ognuno il diritto di parteciparvi non solo come elemento passivo utile al funzionamento del modello, ma anche come osservatore critico in cerca di alternative.

Non parleremo quindi del mercato dal punto di vista tecnico (dove non saremmo ‘seriamente’ credibili), accenneremo soltanto ad alcune ‘condizioni al contorno’ che ci sembrano accessibili anche a chi non se ne intende.

Il mercato è oggi quasi sinonimo di concorrenza e si presenta sostanzialmente come uno strumento di crescita produttiva provvisto di un meccanismo di retroazione che ne impedisce l’esplosione incontrollata. Questo meccanismo, il cui funzionamento è peraltro ostacolato da altri meccanismi al servizio di interessi particolari (come per esempio il costituirsi di situazioni di monopolio), non mira all’omeostasi, cioè al consolidarsi di un equilibrio stabile nel tempo, ma all’omeoresi, cioè a un accrescimento frenato ma non impedito. Ci dicono gli studi ecologici (sullambiente) che già il permanere dell’attuale condizione produttiva sarebbe insostenibile per il nostro pianeta oltreché per buona parte dei suoi abitanti (umani inclusi); un’ulteriore crescita, soprattutto sperequata come oggi la vediamo, ci avvicinerebbe a un punto di non ritorno, al di là del quale l’estinzione –forse non solo nostra– sarebbe solo questione di (poco) tempo. Non possiamo essere certi che questa valutazione colga nel segno; potrebbero per esempio prodursi innovazioni tecnologiche che allunghino (di quanto?) i tempi di ulteriore crescita della produttività. Vogliamo correre il rischio?

Le alternative sono due

· accontentarci dello status quo, cioè dell’omeostasi,

· rassegnarci a una contrazione della produttività, alla sua decrescita.

Nella prima –il perseguimento dell’omeostasi– il problema principale sarebbe la redistribuzione della ricchezza e del welfare, cosí da agganciare l’omeostasi produttiva alla parificazione dei diritti (una sorta di società comunista).

Nella seconda –la decrescita produttiva– il problema principale consisterebbe nel convincere chi produce a produrre –e quindi a guadagnare– di meno senza scaricare il mancato profitto sulle spalle di chi profitto non ne ha.

Per ambedue le alternative è necessaria una ‘rivoluzione culturale’ incruenta, da iniziarsi sui banchi di scuola, una rivoluzione che sposti l’asse educativo dalla ‘patrimonializzazione del sapere’ all’esercizio –altrimenti indirizzato– della mente. Rivalutazione del sapere come motore del pensiero; non concorrenzialità tra i cervelli, ma sinergia ai fini della sopravvivenza.

Violenza

Dare a qualcuno un pugno sul naso senza ragione è violenza.

E con ragione?

Il guaio è che le ragioni si trovano sempre, come la STORIA[207], anche recente, insegna. Forse il primo passo della violenza sono proprio le RAGIONI[178] che –pensiamo– ci autorizzano a usarla. A ben guardare la CONDANNA[35] a morte di un colpevole non differisce gran che dalla condanna a morte di un innocente: violenza di uomini su un uomo. È vero che nel primo caso la violenza ha le sue ragioni nella violenza connessa dal ‘colpevole’, il quale però avrà avuto anche lui le sue ragioni …

Quello che stiamo facendo è un DISCORSO[60] massimalista e fortemente IDEOLOGICO[97]: parificare tutte le violenze in nome di un’idea unica e astratta di ‘violenza’. Non pretendiamo affatto il CONSENSO[37] su queste posizioni che neppure noi condividiamo. Allora perché presentarle?

Perché sono possibili e neppure scartabili a priori. Ne potrebbe derivare per esempio che nell’amministrazione della GIUSTIZIA[93] è bene separare la RICERCA[184] dei fatti e della RESPONSABILITÀ[182] dalla VALUTAZIONE[226] della COLPA[27] e dall’assegnazione della PENA[151]. Quest’ultima infatti non fa che aggiungere violenza a violenza senza che la seconda cancelli la prima. Lasceremo quindi liberi i delinquenti? Ovviamente no, ma la condanna non andrebbe PERCEPITA[155], neppure da chi la subisce, come PUNIZIONE[151] o, peggio, come VENDETTA[227] della SOCIETÀ[199], ma solo come ristabilimento di un EQUILIBRIO[90] rotto dalla violenza. In molti paesi la giustizia viene già amministrata cosí.

Per Bo'

Una giustificazione biologica del circuito autogenerativo?

Questo studio indica che grupetti di sei passeri risolvono dei problemi pratici 10 volte più veloci che una coppia di passerotti.

Baci & abbracci,

fernando



Animal Behavior:
6 Heads Are Better than 2
Andrew M. Sugden
A study of the gregarious house sparrow suggests that individuals in larger groups are swifter at solving new problems than those in smaller groupsfindings that add a behavioral dimension to the ecological costs and benefits of group living. Using wild-caught birds that were then acclimatized to experimental aviaries, Liker and Bókony investigated whether group size affected the success rate at which birds figured out how to obtain seeds from a familiar feeder when access was blocked with a transparent lid. The larger groups, which contained six birds, were able to dislodge the lids roughly 10 times as quickly as smaller groups of two birdsa pattern that was consistent across all individuals in the groups. Also, birds from urban environments were faster than birds from rural backgrounds. Increased success at problem-solving in larger groups may reflect a wider diversity of experience and skill among the individuals in the group and may constitute an adaptive advantage in complex habitats.

Proc. Natl. Acad. Sci. U.S.A. 106, 10.1073/pnas.0900042106 (2009).

Vendetta

"La miglior vendetta è il perdono".

Ed effettivamente il perdono, in quanto per antitesi accentua la colpa, la fa gravare per intero sulle spalle del colpevole …
Ma non è certo questa l'intenzione di chi perdona, almeno nella maggioranza dei casi. Comunque la magnanimità del gesto colloca il perdonante a un livello molto superiore al colpevole e questo fatto può addirittura generare un desiderio di rivalsa che accresce anziché attutire il senso di colpa. Come rispondere allora a un'offesa senza vendicarsi né perdonare?

Cercare di capire che cosa ha spinto l'altro a offendere e soprattutto non interpretare l'offesa come ‘colpa’, semmai come ‘errore’. Questo può capitare a tutti, quella resta iscritta nel casellario giudiziario della nostra coscienza, e a nessuno che non ne sia l'intestatario dovrebbe essere permesso di iscriverci o cancellare alcunché.

La nostra Chiesa ci fa carico di una colpa originaria che sopravvive al ‘perdono’ del battesimo; difficile interpretare gli infiniti guai dell'umanità altrimenti che come una vendetta divina. Gesù almeno deve averli interpretati così, visto che ha tentato di espiare col suo sacrificio non le colpe degli uomini ma la vendetta paterna.

Non credo che questa lettura del testo evangelico sia ortodossa, non so neppure se sia più o meno ‘giusta’ di altre. Penso che sia comunque possibile. La passo al lettore così come l'ho ricevuta e lascio a lui di considerarla degna di riflessione oppure no.

Valutazione

Valutazione = attribuzione di un valore.

'Valutare': un gioiello, un edificio, una situazione, una distanza …
il rendimento di un pozzo petrolifero, di un allievo, di un insegnante …
Come si valuta: a occhio, per esperienza, misurando, statisticamente …

La valutazione è tra le attività più diffuse e praticate tra gli uomini: chi valuta è quasi sempre in una posizione sociale più alta di chi viene valutato o chiede una valutazione, per esempio è un 'esperto'. In molti casi la valutazione, soprattutto se preventiva, è indispensabile per il buon andamento di un'operazione. A seconda dei casi una valutazione è più o meno affidabile, la sua principale caratteristica è comunque un certo margine di incertezza che dovrebbe renderci guardinghi dal darle troppo credito. I percorsi formativi sono generalmente punteggiati da innumerevoli momenti di valutazione che di questa hanno fatto una disciplina a sé, la 'docimologia' con tanto di statuto parascientifico. Dietro tale disciplina non è difficile scorgere un intento semplificatorio; il numero dei soggetti da 'valutare' è a tal punto aumentato che la valutazione personale è diventata troppo dispendiosa e si ricorre alla mecanizzazione (quiz, problemi a soluzione precostituita, calcolo dei punteggi ecc.). A prescindere da fattori psicologici che in molti casi offuscano l'attendibilità di questo tipo di valutazione, ciò che viene valutato è in genere solo l'apprendimento passivo e ben più di rado il pensiero attivo (che può essere contrario a ciò che si è appreso). Un'affidabile valutazione –reciproca– pensiamo nasca dalla consuetudine lavorativa ben più che da occasionali momenti di verifica. Questo pone dei problemi alla valutazione preventiva: in nessun caso pensiamo la meccanizzazione debba avere il sopravvento sulla valutazione personale.

Tradimento

Hai tradito le nostre aspettative! Ma chi vi ha detto di farvele?
Giuda ha tradito Gesù
Ma se non lo avesse fatto?
L'accordo è stato tradito
Lo dicono tutte due le parti
Ha tradito la patria
Perché non sapeva qual’era
Lei lo ha tradito
Lui si limitava a trascurarla
...
...

È parola possiamo dire unidirezionale. Anche se a usarla sono ambo le parti contendenti: infatti di regola il tradimento si subisce e chi lo compie non lo riconosce come tale, salvo forse Giuda (che peraltro agiva per volontà del Signore).

Il tradimento esige vendetta. La colpa è così grave che per essere compensata ha bisogno di una colpa quasi altrettanto grave. È quel ‘quasi’ che in genere assolve il vendicatore.

Ma perché il tradimento viene considerato una colpa, e per giunta così grave da meritare la vendetta?

Eppure non è che il venir meno a dei patti conclusi tra esseri umani, quindi fallibili. O meglio è un venir meno a una certa interpretazione dei patti, evidentemente non condivisa dall'altra parte. Giustamente la vendetta è stata espunta dai codici come motivazione valida di un delitto. Ma un conto è l'invalidazione razionale, altra cosa l'impulso irrazionale che spesso innerva l’azione ben più che non faccia la razionalità. E il tradimento sollecita proprio la reattività profonda, istintuale della nostra umanità, tant'è che ci piace riscontrarlo anche dove non c'è e prestiamo volentieri attenzione a chi ci vuole convincere della sua presenza. Ne devono aver saputo qualcosa sia Otello che Jago, forse anche Desdemona, ma sicuramente Shakespeare.

Terrore

Vedere paura - terrore.

Successo / Fallimento

Molti vedono la vita come un susseguirsi di successi e fallimenti. Nessun altro animale la vedrebbe così. Anche gli animali si mettono alla prova, non per 'vincere' o 'perdere', ma per il cibo, la conquista del partner, il predominio sul territorio. Noi a queste cose aggiungiamo l'orgoglio del successo, l'onta del fallimento. Forse nei mammiferi, in particolare nei primati, comincia a farsi strada qualcosa come il 'sentimento di sé'. Se si fallisce, che sia almeno con dignità! Le peggiori ferite sono per noi quelle dell'orgoglio. Fino a poco tempo fa un marito tradito si preoccupava più della perdita dell'onore che della moglie. Non tanto sono le cose, i fatti, le situazioni a segnare la nostra vita quanto la lettura 'culturale' che ne diamo. Gioie e dolori dipendono in larga parte da questa lettura. Visto il nostro successo (?) evolutivo c'è da pensare che questa aggiunta culturale sia un valore positivo per la sopravvivenza. Sarà così?

Stupidità

La si identifica con l’incapacità a riflettere, addirittura a pensare. Molti ritengono questa incapacità assai diffusa, e che quindi pensiero e riflessione siano compito di pochi. Stranamente questa convinzione si trova anche tra chi dovrebbe saper pensare e riflettere per mestiere. La stupidità è invece piuttosto rara e non coincide affatto con quella incapacità. Viene di solito ritenuto ‘stupido’ non chi non sa pensare ma chi pensa diversamente. Le società hanno infatti elaborato forme di pensiero standard che tendono a emarginare chi non vi si attiene. Hanno inoltre costruito gerarchie intellettuali per cui solo chi pensa determinate cose rientra tra i pochi incaricati del pensiero. Mentre non è raro il caso di filosofi e scienziati incapaci di ‘pensare come comunemente si pensa’. La letteratura umoristica è piena di sapienti ‘imbranati’ nella quotidianità, di contadini analfabeti ma eccellenti penstatori.

Spesso si scambia per stupidità l’ignoranza di alcuni saperi ritenuti qualificanti mentre di altri, ritenuti di rango inferiore, non si tiene conto anche se indispensabili al vivere quotidiano. Siamo capaci a riflettere su queste incongruenze? Si conoscono invero delle patologie con sintomi di ‘stupidità’, ma non è a queste che si riferisce l’uso normale della parola. E se provassimo a rivoltare le carte e a pensare che, salvo i casi di competenza del medico, lo ‘stupido primario’ non esiste e se qualcuno ci appare tale non è su lui che dobbiamo indagare ma su noi stessi, probabilmente incapaci di assumere il suo modo di pensare? Viceversa esiste ed è equamente distribuita una ‘stupidità di ritorno’, dovuta alla disabitudine al pensiero e di questa è responsabile la cultura.

Strumento

È un'altra parola tuttofare che si adatta altrettanto bene a un violino, alla matematica e a una forchetta. Ed è tra le più ammirevoli prestazioni del nostro cervello che non ci capiti di suonare la matematica e di mangiare con il violino. A dire il vero, ci dà una mano la lingua (quella che parliamo), che determina i significati no  parola per parola ma attraverso il discorso.

A noi qui 'strumento' ci interessa nel significato di 'mezzo per …' Alcuni strumenti li abbiamo in dotazione: braccio, gamba, sensi, lo stesso cervello … ; altri ce li possiamo comprare, dal martello all'automobile, al computer, altri ancora, tra cui quelli mentali, dobbiamo costruirceli personalmente con l'aiuto dei nostri consimili. Ma nessuno dà niente per niente e anche questo aiuto dobbiamo ripagarlo usando gli strumenti secondo le istruzioni allegate. E così della nostra persona facciamo un membro della società, un passo necessario per la nostra sopravvivenza. Il punto non è quindi contestare l'uso 'normale' degli strumenti ma riflettere su questa normalità e mantenere una porta aperta per le alternative (vedere Piccolo dizionario) che forse arricchiranno la 'normalità' di domani. Esempio:

– La logica è un potente strumento del pensiero che ci permette di risolvere molte situazioni problematiche. Aristotele lo ha descritto con molta cura e reso disponibile a noi tutti, tanto che per più di 2000 anni ce ne siamo serviti quasi automaticamente, basando su di essa persino i nostri modernissimi computer. Poi ci siamo accorti che la 'normalità' della logica aristotelica invitava a ulteriori riflessioni –sui suoi limiti, sui casi logicamente in decidibili, su possibili logiche alternative …–; attualmente anche la logica non è più un articolo di fede, ma uno strumento duttile su cui è possibile ragionare.

Straniero

Quello 'stra' –che viene dal latino extra = fuori– conferisce alla parola un ché di strano, sospetto, da tenersi lontano, fuori di casa propria ... aggiungi il fatto che lo straniero in genere parla male la nostra lingua (anche se è un accreditato scrittore nella sua), ha abitudini un poco diverse dalle nostre e forse anche pensa diversamente (pur pensando come noi che due più due fa quattro): tutto questo lo rende un po' meno essere umano di noi. Gli antichi immaginavano gli abitanti di terre lontane come esseri mezzo uomini e mezzo animali. Del resto anche il nostro civilissimo Occidente fino a poco tempo fa considerava i negri e gli indios 'razze inferiori' mentre per non pochi gli ebrei andavano eliminati perché inquinavano la 'razza bianca'. E oggi?

Un italiano che delinque è semplicemente un delinquente, ma se a delinquere è un rumeno, è un delinquente perché è rumeno. Certo non tutti pensano così, ma di fronte al delitto di uno straniero, soprattutto se extracomunitario, ci dimentichiamo, momentaneamente, di mafia, camorra e 'ndrangheta.

Questa irrazionale reazione verso lo straniero è biologica o culturale? A parte l'irrazionalità di questa stessa distinzione –la cultura non fa parte della vita?–, nel mondo animale un istinto avverso individui della stessa specie si riscontra nella competizione sessuale, nella territorialità e in certe società di insetti. Non è improbabile quindi che anche per l'uomo il meccanismo sia analogo e che quindi siamo tutti un po' come gli antichi pensavano gli stranieri lontani, mezzo uomini e mezzo animali (sempreché non lo fossero per intero). Alla metà animale abbiamo poi sovrapposto la cultura marchiando certi nostri consimili come 'stranieri', salvo poi, quando ci conviene, idealizzarne altri come 'modelli di modernità'.

Stasi

Vedere movimento / stasi.

Stabilità / Instabilità

Come per molte altre coppie oppositive, il termine stabilità riceve una valutazione positiva anche dal punto di vista etico-comportamentale: un carattere stabile viene preferito a uno instabile, un'unione stabile a una instabile. Perché questo, quando tutto nel mondo sembra soggetto a instabilità?

Una risposta univoca non è probabilmente a disposizione e non resta che avanzare delle ipotesi. Una di queste è la seguente:

la vita ci tiene alla propria conservazione, anzi, forse coincide proprio con la 'volontà' di durare nel tempo. Tollera quindi un certo grado di instabilità che le permetta di far fronte all'instabilità dell'ambiente. Quando però questo limite viene superato subentra il rifiuto: la vita retroagisce cioè mettendo in atto meccanismi capaci di riportare l'instabilità entro i valori consentiti. Nella specie umana questi meccanismi possono essere di natura ideologica piuttosto che fisica ed ecco la preferenza accordata alla stabilità. Nei fatti tuttavia anche la vita, segnatamente quella umana, è dominata dalla instabilità, ed è a questa, o meglio alla sua accettazione e al suo controllo che le pratiche formative dovrebbero allenare individuo e collettività. Ciò potrebbe voler dire che l'esercizio del dubbio e l'insicurezza che ne deriva non vanno lasciati all'emergenza casuale, ma fatti rientrare nella pianificazione educativa a tutti i livelli fin dalla scuola di base.

Che ne pensa il lettore di questa ipotesi e delle sue conseguenze per la scuola?

Speranza

La speranza muove all'azione? O favorisce l'attesa inerte?

È un atteggiamento positivo o negativo verso il futuro?

Produce una sensazione piacevole o dolorosa?

La logica binaria o/o è del tutto insufficiente a misurare la speranza, la cui caratteristica principale è l'oscillazione, quasi da compresenza del e del no. Istante per istante non è possibile stabilire in quale posizione la speranza si trovi. 

La speranza ha un inizio, una fine?

Sì, se è specificato il suo oggetto e allora l'inizio è dato dal momento in cui questo si manifesta, la fine dal momento in cui per una ragione o per l'altra cessa di attirare su di sé la speranza.
Se consideriamo ‘speranza’ come uno stato d'animo, questo è tendenzialmente permanente, cambia solo il suo oggetto (→ delusione – rassegnazione).

Sopravvivenza


Il nostro insistere sulla sopravvivenza come orizzonte ideologico di IMC da un lato parifica questa a qualsiasi altra ideologia togliendole ogni pretesa di superiorità. Dall'altro permette un'ampia convergenza culturale: la maggior parte degli individui risponderebbe positivamente alla domanda se ci tengono alla sopravvivenza.

Questa risposta potrebbe però essere irriflessa, quasi istintiva e riferita piuttosto alla propria persona o tutt'al più all'umanità circonvicina. Alla sopravvivenza di una tribù amazzonica o della nostra stessa civiltà tra un migliaio di anni ci mostreremmo assai meno interessati e poco disposti a sacrificare anche solo una piccola parte del nostro benessere attuale. La nostra congenita miopia per ciò che è lontano da noi nello spazio e nel tempo poteva forse essere un vantaggio evolutivo fin quando le nostre capacità di occupazione mentale dello spazio e del tempo erano limitate a piccoli intorni del qui ed ora. Oggi questa miopia sembra ci stia conducendo a una rapida estinzione. Ma sempre la stessa miopia ci fa sopravvalutare tale possibile estinzione rendendoci indifferenti nei confronti di altre estinzioni sia passate che presenti.

In questo senso IMC è più radicale di altre ipotesi. Il suo orizzonte ideologico non ammette compromessi: se ci teniamo alla sopravvivenza, dobbiamo renderci disponibili alla relativizzazione metaculturale –che, ricordiamo, non ha a che fare con la relativizzazione assoluta– e accettare le conseguenze che ne derivano.

E –per raccordare tra loro queste generali considerazioni sui rapporti tra UMC e sopravvivenza– vorremmo indicare nella relativizzazione metaculturale la costante metodologica da trasferire in ogni operazione che intendiamo compiere sul 'reale' o sul 'pensato'.



Scienza

Scienza s.f. Che cosa si intende oggi per 'scienza'? Fino a ieri si pensava a una 'ricerca della verità', al progressivo avvicinamento alla comprensione della 'realtà'. Ancora in un recente libro di Roger Penrose intitolato The road to Reality, ove peraltro più che alla realtà si pone mente alla via o piuttosto alle vie per raggiungerla. Nell'interpretazione, ormai quasi istituzionalizzata, di Karl Popper una certa proposizione è scientifica se è osservazionalmente falsificabile. Se non lo fosse –come per esempio IMC– non avrebbe senso parlare di 'scienza'. Per il pensare di un tempo il criterio popperiano rappresenta un assurdo: più che la –inconfutabile– verità la scienza perseguirebbe la 'falsificabilità'!

Ne consegue per lo scienziato una sorte di schizofrenia affettiva: da un lato la scienza affannosa di un qualcosa che invalidi la sua teoria, dall'altro la speranza non meno affannosa che questo qualcosa non si trovi. La vita con IMC è decisamente più comoda! Come si considera la scienza –in senso popperiano– dal punto di vista mc?

Anzitutto occorre ricordare che, per IMC, ogni punto di vista non può essere che culturale e quindi può fregiarsi del prefisso 'meta' soltanto se viene dichiarato e relativizzato alla cultura che l'ha prodotto. Così trattato, ogni punto di vista diventa metaculturale e IMC può produrne infiniti. Se tutti fossero egualmente validi, tanto varrebbe dire che nessuno lo è, il che si verificherebbe puntualmente se come UCL di riferimento adottassimo UMC. Ma sappiamo l'inabitabilità di UMC, non resta quindi che scegliere un UCL conveniente. Conveniente a chi? Come sceglierlo? Nel caso della scienza la sua valutazione mc è subordinata –secondo quanto già detto innumerevoli volte– al solo criterio della sopravvivenza. Nella sua storia recente è indubitabile che la scienza abbia dato un largo contributo al welfare dell'umanità migliorando, là dove lo ha fatto le condizioni di vita del singolo come delle popolazioni. Il guaio è che non lo ha fatto dappertutto accrescendo così la disparità fra chi era privilegiato dal suo sviluppo e chi non lo era, ma soprattutto favorendo al massimo chi era in grado di sostenere le enormi spese di quel progresso, reso possibile appunto dall'acuirsi della disparità. Sono cose ben note e variamente interpretate in sede politica, e non è nostra intenzione riaprire qui conflitti ideologici cui la scienza si è sempre dichiarata esterna, senza peraltro riuscirci.

In particolare un aspetto collaterale della scienza, la tecnologia, viene spesso fatta oggetto di opposte valutazioni: osannata dai più per le evidenti facilitazioni apportate al viver quotidiano, comincia oggi a essere guardata con sospetto da una minoranza che la incolpa di trasferire alle macchine la responsabilità che gli uomini hanno –o dovrebbero avere– riguardo alla sopravvivenza loro e della vita stessa sul nostro pianeta.

Più grave ancora è l'ideologizzazione della tecnica e in larga misura della scienza stessa che dei rispettivi UCL ha fatto dei paradigmi di assolutezza paragonabili a quelli delle più pericolose religioni monoteiste. Non a caso vediamo queste religioni radicalizzare certe loro posizioni antiscientiste, quasi si trattasse di intraprendere nuove crociate contro una religione rivale. Se la scienza rivendica con qualche ragione la sua indipendenza dal potere politico, non può certo rivendicarla nei confronti del potere economico, da cui dipende quasi per intero. La stessa cristallizzazione ideologica della scienza intorno al concetto di 'numero' e 'misurabilità' è probabilmente dovuta, più che al 'pensiero scientifico' in quanto tale, al potere che la sostiene. L'analogia con ciò che si osserva nelle grandi religioni monoteiste fa della scienza appunto un valido concorrente.

A queste considerazioni che non ci aspettiamo affatto vengano largamente condivise un'altra se ne aggiunge contro cui è più difficile obiettare. Sono proprio gli scienziati che ci segnalano la crescente pericolosità del modello di vita che l'occidente sta imponendo all'umanità, modello alla cui costruzione scienza e tecnologia hanno dato il principale contributo. Il paradosso sta in questo: che oggi ci vediamo costretti a rivolgerci, per la nostra sopravvivenza, proprio agli UCL corresponsabili dell'attuale situazione di pericolo. Mentre forse, per transitare verso un'era di maggiore sicurezza e –diciamolo pure– di effettiva ripresa della vita (che potrebbe manifestarsi, almeno inizialmente, come una diversa distribuzione del welfare), avremmo bisogno di un nuovo 'stile di pensiero' piuttosto che di nuove e sempre falsificabili teorie scientifiche.

Rischio

Il rischio fa parte della quotidianità: a piedi, in macchina, al chiuso, all'aperto, da giovani, da vecchi ... non c'è giorno che non corriamo qualche rischio. Spesso neppure ce ne accorgiamo, talvolta però lo sopravvalutiamo, tanto da averne paura, come capita a molti nel salire su un aereo. In linea generale tuttavia lo mettiamo in conto senza preoccuparcene eccessivamente. In tempi passati l'insicurezza era probabilmente una condizione abituale di vita (quando questa durava in media sui 35-40 anni); oggi per molti di noi –non certo per tutti– il garantismo sociale ha diminuito grandemente i rischi del quotidiano, tanto che possiamo contare su una vita media di 75-80 anni. È diminuita altrettanto la paura del rischio?

Tanto quanto la paura, è ben conosciuto, soprattutto tra i giovani, l'amore per il rischio. Il rischio come spettacolo –vero o finto che sia– domina gran parte della TV e del cinema. La sfida del rischio attira anche persone altrimenti calme e pacifiche. Su questa attrattiva fanno leva certe ideologie come la mascolinità, il patriottismo, le religioni e, attraverso quelle, i poteri che se ne servono.

L'amore per il rischio è quindi per una parte indotto culturalmente, per un'altra però connaturato a una stagione della vita e certo non in contrasto con la vita stessa. I rischi affrontati da Cristoforo Colombo e compagni ci hanno regalato le Americhe –sottraendole peraltro ai loro legittimi proprietari–.

Daremo quindi di rischio e dell'amore per esso una valutazione positiva o negativa?

Ripetizione

Una canzone ripete il suo ritornello: due, tre, quattro volte. E noi continuiamo a ripeterlo canticchiando o anche solo pensandolo. La ripetizione scava un solco nella memoria, sempre più profondo e ci piace camminarci dentro, ritrovare o riprodurre il già noto. La ripetizione ci rassicura, esorcizza il tempo che passa, ci illude di eternità ...

Ma esistono le ripetizioni, o meglio sono uguali tra loro?

Una canzone che oggi ci fa felici domani nel ricordo ci rattrista. È sempre la stessa canzone?

“Se hai ripetuto il vero sei un bugiardo” sta scritto da qualche parte in un antico libro di saggezza cinese. “Non puoi fare due volte il bagno nello stesso fiume” ha detto un greco. Una musica ripetuta non è la stessa musica perché occupa un tempo diverso. E anche per l’ascoltatore non può essere la stessa: al primo ascolto è una novità, al secondo un ricordo, dal terzo in poi subentra l’assuefazione, l’abitudine, e a mano a mano l’oggetto scompare e resta solo il condizionamento, il ‘non poterne più fare a meno’.

Ma, se così stanno le cose, come mai la ripetizione passiva praticata dalla ‘musica di consumo’ (ma non solo da quella), trova così ampio consenso? Lasciamo ai lettori e ai ‘consumatori’ di musica il compito di riflettere, se lo vorranno, su quanto qui detto da un anziano compositore, a cominciare da quel “se così stanno le cose” che va anzitutto verificato. L’anziano compositore è probabilmente un ‘uomo di parte’ e la parte che lo vede schierato potrebbe non essere quella cui lui si rivolge.

Ricchezza

Vedere povertà / ricchezza.

Religione

Religione. Ne parliamo in questa sede al singolare collettivo. Non è questione infatti di quali siano più o meno pericolose per la sopravvivenza (ricordiamo che questa rappresenta per noi l'orizzonte ideologico entro cui intendiamo muoverci). Sarebbe certo possibile graduare in qualche modo la pericolosità delle singole religioni, ma è forse più proficuo spostare lo sguardo da queste alle centrali di potere che le gestiscono. Non è comunque nostro proposito indagare in tal senso. Le suddette centrali non avrebbero del resto alcun potere se non fosse universalmente diffuso uno 'stile di pensiero' definibile come 'religioso'. Lo si riscontra di fatto in tutte le popolazioni storiche, protostoriche e attuali, anche se non in tutti i singoli individui. Possiamo intendere le religioni come le varianti culturali locali (UCL) di questo 'stile'. Come sappiamo, le religioni sono state e sono tra le maggiori istigatrici al confronto bellico nonostante palesi affinità ideologiche (tra cui massima l'idea di Dio) di cui ciascuna rivendica la rappresentatività assoluta. Fin quando le guerre, per disastrose che fossero, non costituivano un pericolo per la sopravvivenza della nostra specie, alle religioni era concesso campo libero per ogni tipo di violenza. Oggi che la pericolosità della guerra investe tutto il genere umano e oltre anche lo 'stile di pensiero' religioso va fortemente ridimensionato alla sfera individuale con la speranza che receda quanto prima anche da questa. È essenziale però che alcune 'regole di convivenza', un tempo iscritta nelle 'tavole' delle religioni, vengano trasferite nelle 'tavole' di una laicità compatibile, cosa peraltro che si sta facendo almeno dalla Rivoluzione francese in poi, ma su cui siamo ancora lontani dall'avere la convergenza necessaria a garantire la nostra sopravvivenza. Potremmo anche dire che abbiamo bisogno di una religione 'laica' che sostituisca tutte le altre dopo la nietzschiana 'morte di Dio'. Il termine 'religione' è tuttavia troppo ricco di connotazioni per ora inespungibili; è inoltre legato a rimandi assolutizzanti e dogmatici, del tutto incompatibili con una fase di transizione verso un UCL laico di estensione planetaria.

Lo stile di pensiero 'religioso', anche se ancorato a religioni storiche, ha comunque pieno diritto di esistenza fin quando gli piacerà di esistere, purché non si associ a forme di potere che annebbino la consapevolezza individuale.

Realtà

Realtà. Non c'è ragione di dubitare della realtà. Non certo perché la vediamo o la sentiamo o la viviamo: i sensi, anche l'appercezione o il principio di causa potrebbero ingannarci. Ci vorrebbe un garante esterno, che quindi non sarebbe reale; dovremmo cioè inventarci questo garante, cosa che puntualmente abbiamo fatto innumerevoli volte e nelle più diverse forme (tra l'altro con la scienza).

Siccome però della realtà nostra, del mondo abbiamo bisogno per il tempo della nostra vita è saggia cosa non sprecare questo tempo a disquisire sulla realtà del reale. Consideriamola quindi, neppure come un'ipotesi, secondo che vorrebbe Konrad Lorenz, ma come un dato. Indiscutibile perché non vale la pena di discuterlo.

Nulla ci impedisce di considerare il 'concetto di realtà' un invariante, non per come ci si presenta o per come lo interpretiamo, ma per il fatto che da questo dobbiamo partire per ogni indagine o ricerca su che cosa sia realtà (anche se volessimo ridurla a illusione).

Abbiamo distinto realtà dal suo concetto e potremmo rendere ricorsiva questa distinzione precipitando nell'abisso di UMC. Utilizziamo quindi l'espediente dell'arresto e fermiamoci al 'concetto di realtà', dichiarandolo appunto un invariante mentre la 'realtà' stessa (o, se si preferisce, la sua immagine) è una variabile relativistica dipendente dai modelli interpretativi che ci piace adottare.

Rassegnazione

Vedere delusione - rassegnazione.

Prova

"La vita ci mette quotidianamente alla prova".

"Gli esami non finiscono mai".

Perché vedere la vita in questo modo? Non bastano le prove che ci impongono i nostri simili e quelle che noi imponiamo agli altri? E perché imporre delle prove? Perché la nostra società è costituita gerarchicamente, non egalitariamente come quella degli insetti sociali, che ha continuo bisogno di verificare l'efficienza del suo ordinamento gerarchico. Solo che le misure di efficienza troppo spesso non si basano sulle esigenze della società nella sua interezza ma su quelle di una piccola parte di essa.

Pretesto

“Era solo un pretesto, le sue intenzioni erano ben altre ...”

“L’argomento non è che un pretesto per un esercizio di stile.”

“Le presunte armi di distruzione di massa sono state il pretesto per un’aggressione difficilmente giustificabile in altro modo.”

“Sono tutti pretesti per giungere a lei ...”

...

Usiamo ‘pretesto’ per significare che in una certa azione non è stata compiuta per sé stessa ma per mascherarne un’altra che non si vuole o non si può dichiarare.

Ma perché “non si può o non si vuole?”

Le ragioni possono essere le più diverse:

– l’azione non godrebbe della generale approvazione,

l’azione è contraria a qualche legge,

– non vogliamo che siano conosciute le sue vere motivazioni,

– siamo interessati a sviare l’attenzione degli osservatori,

...

I pretesti alimentano la diffidenza. Anzi non di rado consideriamo ‘pretesto’ una finalità che invece è effettiva. Come fare per distinguere?

Forse conviene analizzare i ‘pretesti’ come se non fossero tali, fossero cioè buone ragioni, e solo in un secondo momento, una volta assodata la loro natura pretestuosa, trattarli di conseguenza. È ciò che le Nazioni Unite hanno fatto recentemente nel caso dell’Iraq, ma che non è valso a scongiurare la guerra.

Nella vita di tutti i giorni possiamo permetterci il lusso di giudicare delle intenzioni, quando però dal nostro giudizio dipende il destino di altri, occorre molta cautela. Ma la cautela lascia al pretesto il tempo per tradursi in azione ...

Precisione/Approssimazione

Lasciamo ai lettori la discussione su questi due termini. Sono oppositivi? Sono contigui? Chiaramente delimitabili? Non è affatto necessario (come per quasi tutti gli interrogativi aperti di questo glossario) che si arrivi a una conclusione condivisa.

Come ovvio alla discussione si legga la seconda parte (che comincia da ‘Come sempre’) della voce Necessità.

 

Povertà / Ricchezza

La povertà è ingiusta e mal sopportata se non è frutto di scelta. Ma la scelta della povertà ha senso solo in un mondo di ricchi. È quindi la ricchezza a rendere ingiusta e insopportabile la povertà, come anche a dare un senso alla sua scelta.

Che ne pensa il lettore di questo ragionamento che assegna comunque il primato alla ricchezza?

Ricchezza e povertà, anche se economicamente valutabili, non lo sono più se si adottano altri parametri. Non è vana retorica dire di una persona che è interiormente ricca o che è ricca di interessi. Certo, questi tipi di ricchezza presuppongono, se non la ricchezza, almeno una stabilità economica che permetta l'individuo di coltivare le altre. Ed è proprio la stabilità economica che viene negata ai più, oggi anche nel nostro Occidente ricco. E non è solo la stabilità in sé ma attraverso di essa viene negata anche la possibilità di pensare ad altro. Instabilità e povertà sono cioè indispensabili per l'autonomia dei ricchi, così come è indispensabile che i poveri non scendano al di sotto di una certa soglia di povertà, tanto da non poter più mantenere i ricchi.

Ancora una volta: che ne pensa il lettore di quest'altro ragionamento tendente a incolpare la ricchezza di tutti i mali?

Non abbiamo né intendiamo avere l'ultima parola su queste come su altre questioni. Ci basta sollecitare il pensiero comune perché rifletta autonomamente, anche senza il sostegno della ricchezza, sui problemi che ci riguardano da sempre.

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Fin quando le opposizioni riguardano solo le parole, se ne può discutere. Il fatto che nel mondo esistano non solo i ricchi e i poveri, ma i ricchissimi e i poverissimi non tanto dovrebbe essere discusso quanto eliminato. Ovviamente eliminando, non i ricchi (come pure talvolta è stato fatto) né i poveri (cosa anche questa tentata in più di un'occasione), ma le condizioni –sociali, economiche– che determinano l'opposizione.

È pensabile una soluzione del genere in democrazia?

I regimi totalitari si sono avvicinati talvolta –per esempio con il comunismo e il nazionalsocialismo– e, in formato ridotto, anche in certe comunità monastiche, ma le attuali democrazie sembra accentuino l'opposizione anziché eliminarla. Non è infatti con gli 'aiuti al terzo mondo' o con l'invio di forze armate a difesa della 'libertà' che si risolve il problema (e lo si è visto molte volte negli ultimi decenni). È più probabile che lo si possa risolvere limitando, se non la libertà, l'uso indiscriminato che se ne fa anche là dove manca perfino il concetto e forse anche l'interesse per lei.

L'esser povero o ricco non è un dato di natura come l'esser bianchi o neri, biondi o bruni, alti o bassi; è una condizione creata dagli uomini e quindi da essi controllabile. Non è affatto auspicabile una parità che finisce per scontentare tutti. La stessa interpretazione dei termini 'povero', 'ricco' varia da persona a persona. Premesso che a tutti venga riconosciuto il diritto a uno standard di vita mediamente accettabile (che elimini una volta per tutte la povertà imposta), il di più dipenderà dalle scelte individuali e da quanto ciascuno vorrà investire in esse. Per lo più saranno le scelte e gli investimenti economici a essere dominanti. C'è però anche chi ha interessi diversi da quelli economici. 'Ricchezza' e 'povertà' non si misurano necessariamente in termini monetari. E questi interessi 'altri' potrebbero diffondersi a mano mano che l'arricchimento economico venga controllato (autocontrollato). Se ne avvantaggerebbe la salute. La ricchezza (economica) inquina, la povertà molto meno.

Paura - Terrore

In quanto esseri viventi, anche gli uomini, come tutti gli animali, hanno paura di tutto ciò che ritengono possa attentare alla qualità della loro vita quando non alla vita stessa. A questo diffuso sentimento gli uomini cercano di ovviare progettando sempre più sofisticati sistemi di protezione e garanzie difensive.

Paradossalmente sono gli stessi uomini che progettano sempre più sofisticati sistemi di offesa in grado di seminare qualcosa che va molto al di là della paura: il terrore. La gazzella è terrorizzata dal ghepardo per il breve periodo del suo attacco; l'uomo prolunga lo stato di terrore per anni, e non sono solo i 'terroristi' a farlo. Una bomba che esplode in un mercato non cambia se è lanciata da un 'fondamentalista' o da un aereo che 'difende' dai fondamentalisti. Solo che in un aereo c'entrano molte più bombe.

Patria

Per un nativo di Busto Arsizio la patria è Busto Arsizio, la Padania, l'Italia, l'Europa, la Terra? E se lui o la sua famiglia sono emigrati da anni in California, è questa la sua patria o gli Stati Uniti?

La parola in questione è fortemente ideologizzata, al punto che per un oggetto così indistinto gli individui hanno dato la vita o l'hanno tolta ad altri individui. Come è potuto accadere e per giunta in modo così sistematico da millenni?

È un concetto derivato dalla ‘territorialità’ di tante specie animali?

È una conseguenza della ‘socialità’ della specie nostra?

È un'ideologia indotta dal ‘potere’ a propria salvaguardia?

È un sentimento ‘innato’?

È un costrutto ‘culturale’?

Le risposte saranno ovviamente diverse a seconda del UCL di riferimento. Molti non saranno neppure d'accordo nel considerare la patria un ‘oggetto indistinto’.
Negli ultimi anni, proprio in concomitanza con l'emergere del concetto di ‘globalità’, la patria, intesa anche come luogo delle ‘radici’ culturali di una comunità, ha riconquistato una centralità che si pensava perduta. Questa duplice, contrastante tendenza, convergente e divergente, ha forse a che fare con il problema che oppone omologazione a diversificazione? L'attuale periodo di transizione verso un nuovo assetto mondiale (o verso l'estinzione) richiede ambedue: l'omologazione per rendere impraticabile la guerra totale, la diversificazione o almeno il mantenimento delle differenze perché biologicamente indispensabili alla http://metaparole.blogspot.com/2008/10/sopravvivenza.html.

Ottimismo/Pessimismo

Consideriamo i due termini congiuntamente perché, come spesso accade, il loro significato emerge dalla loro opposizione.

Ottimista è chi, in una situazione di difficoltà, prevede un esito positivo o almeno la possibilità di un tale esito.

Pessimista è chi, anche in una situazione favorevole, prevede un esito negativo o almeno lo ritiene possibile se non addirittura probabile.

Ma che succede se in entrambi i casi l’esito si rivela negativo?

Il pessimista l’aveva messo in conto, non ne è quindi colpito in modo particolare, mentre l’ottimista al danno unisce la delusione e in più l'amarezza nel vedere sconfitto il suo ottimismo. E se l’esito è positivo?

L’ottimista vede confermato ciò che comunque già si aspettava, mentre il pessimista non può che gioire di essere stato smentito dai fatti. Conviene quindi prevedere il peggio, perché in ogni caso l’esito sarà migliore o eguale al previsto. Se invece abbiamo previsto il meglio, l’esito sarà uguale o peggiore delle nostre aspettative. Allora, chi è il vero ottimista e chi il pessimista?

Ma il ragionamento può essere un altro. L’ottimista, che si aspetta sempre il meglio, vive in una condizione permanentemente anche se solo virtualmente– positiva, mentre l’altro, anche se le cose gli vanno bene, vive in una condizione virtualmente negativa.

A conti fatti è meglio essere ottimisti o pessimisti?

Il significato dei due termini emerge con chiarezza dalla loro opposizione? O questa non è così oppositiva come sembra?

Ordine / Disordine

Le parole hanno in genere più significati, spesso anche lontani tra di loro ed è il contesto a stabilirli. Una parola come 'ordine', la troviamo in espressioni come:
  • l'ordine dei magistrati,
  • l'ordine dei gesuiti,
  • il comandante emanò un ordine,
  • l'ordine dei coleotteri,
  • ordine alfabetico,
  • logica del prim'ordine,
...

Il senso che qui ci interessa si chiarisce invece in rapporto al suo opposto, disordine (provate a sostituirlo nelle espressioni precedenti). Ecco alcune espressioni aperte ad ambedue:
  • la stanza è in ordine/disordine,
  • l'ordine/disordine dell'universo,
  • è un tipo amante dell'ordine/disordine, 
ecc.

All'ordine attribuiamo normalmente una connotazione positiva, tant'è che per molti secoli l'abbiamo cercato anche laddove non c'è: nell'universo appunto, nel ‘creato’. E perché ve l'abbiamo cercato? Per il presupposto culturale, ideologico, religioso che, essendo stato creato da Dio, non poteva contenere imperfezioni e il disordine era visto come il massimo dell'imperfezione. E fino a un certo punto (individuabile grosso modo in Newton) il pensiero scientifico sembrò confermare la perfezione del mondo. Successive ricerche, a cominciare da quelle sui gas hanno introdotto nella scienza il criterio del disordine, che un po' alla volta ha invaso il campo avverso con i concetti di relatività, probabilità, statistica, fino all'indeterminazione della teoria dei 'quanti' e oltre.

Mentre per la scienza (biologia compresa) il primato dell'ordine sul disordine non è più sostenibile, il pensiero comune continua a privilegiarlo. Si dirà –e con qualche ragione– che non è scritto da nessuna parte che a dettar legge debba essere il pensiero scientifico. Ciò non toglie che possa essere utile –ad esempio per la sopravvivenza– domandarsi perché il pensiero comune sia restio ad accettare ciò che la scienza gli suggerisce. Cercare un determinato libro in una biblioteca ordinata (per esempio per materie o autori) è certamente assai più agevole che in un'accozzaglia di libri su un carrettino. E così un tempo lavorativo ordinatamente scandito è più produttivo di uno che non lo sia. È vero questo? Anche per una libera attività, per esempio artistica, o per il lavoro agricolo?

In politica l'accento viene posto ora sul concetto di libertà, ora su quello di ordine. Sono conciliabili questi due concetti o sono oppositivi? Libertà è sinonimo di disordine? Per certo estremismo anarchico è così, ma non di rado è l'eccesso di ordine 'locale' a produrre disordine a un livello più generale (si considerino da questo punto di vista il nazismo o i regimi più rigorosamente comunisti). Ai livelli minimi della famiglia e dell'individuo l'ordine viene invocato a difesa della sicurezza, dimenticando però che l'ordine e la sicurezza nostri si pagano spesso con il disordine e l'insicurezza altrui.

Onestà

Sul concetto di ‘onestà’ c’è un accordo abbastanza ampio: un truffatore non è considerato un campione di onestà. Eppure ‘un uomo onesto’ non è l’esatto equivalente di una ‘donna onesta’. A stabilire il significato di ‘onestà’ contribuiscono le leggi e le abitudini del luogo, ma anche le convinzioni personali. Una prostituta onestissima può essere giudicata disonesta a priori, per mestiere che fa, mentre un affarista che si sia arricchito sulla pelle degli altri resta ‘persona onestissima’ fin quando non sia incappato in qualche articolo della legge. Spesso entra in gioco anche la morale. Questa è in genere più elastica delle leggi: rubare i ricchi per donare ai poveri è certamente contro la legge, ma moralmente meno condannabile del contrario, che viene peraltro praticato su larga scala (per esempio dai paesi ricchi nei confronti di quelli poveri), senza che la legge abbia nulla da eccepire.

A tutela dell’onestà, se questa è una virtù, non è quindi sufficiente richiamarsi alle leggi. Un’abile avvocato riesce assai spesso a tirar fuori di impaccio un abile imbroglione. Lo diremo suo complice per questo? No di certo: l’avvocato fa il suo mestiere in piena onestà, e, se riesce a vincere la causa, anche l’imbroglione risulterà aver fatto onestamente il suo. E allora, come distinguere onestà da disonestà?

Si dirà: in base al ‘senso morale’, che, per elastico che sia, è forse più affidabile del rigido formalismo legale.

Ho poc’anzi messo in dubbio che l’onestà sia una virtù. Si può essere onesti per educazione ricevuta o per abitudine. Socialmente parlando non contano le ragioni della tua onestà, purché tu sia onesto. “Vieni, andiamo a svaligiare una banca!” “No.” “Perché?” “Perché ho paura.”

Nozione

(Ricavo questa voce da uno scritto del 2003, Dal sapere al pensare)

Un tempo padrone assoluta del campo, oggi più o meno ridimensionata nei gradi inferiori della scuola, ma tuttora imperante in quelli superiori, la nozione sta comunque al centro di ciò che chiamiamo il sapere e che la scuola si sente obbligata a trasmettere. Alcune nozioni si conservano a lungo e sono quelle che si patrimonializzano; altre, e sono la maggior parte, perdono di valore o addirittura vengono falsificate da nozioni successive. Tutte sono oggi facilmente immagazzinabili nelle memorie artificiali dei computer.

Da qualche decennio i programmi scolastici tentano di reinterpretare la nozione come strumento e non come unità patrimoniale del pensiero, ma i meccanismi di acquisizione e di riscontro restano di fatto gli stessi e la scuola ne approfitta per non cambiare. La nozione pura e semplice, sia che aggravi la nostra mente sia che occupi un certo quantitativo di memoria in un computer, resta un elemento inerte se la nostra mente non riesce a penetrarla criticamente, relativizzarla all'UCL di cui è, appunto, elemento.

In una cultura sufficientemente omogenea e stabile la scuola di tipo nozionistico e trasmissivo aveva la sua ragione d'essere. Oggi, con l'indebolimento delle fedi e delle ideologie, con la sempre più accentuata compresenza, anche in un ristretto territorio, di culture e religioni diverse, oggi abbiamo bisogno che la scuola del sapere si trasformi in una scuola del pensare.

E che faremo della nozione? La espungeremo dal nostro orizzonte metodologico?

Ovviamente non. La manterremo, ma non più come punto di arresto di un processo mentale (verificabile con un'interrogazione), ma come nodo problematico da sottoporre a costante rielaborazione.

Nemico

Come nel caso di 'amico', ancora una trappola tesa dal verbo 'essere', o meglio da chi si serve del verbo 'essere' per tenderla. Credo che nessuno nasca da 'nemico'. Nemici si diventa perché qualcuno o qualcosa ci spinge a diventarlo. Sono molti che spingono e forti sono gli interessi che trasformano gli uomini in 'nemici'. Ideologie e religioni fanno la loro parte. Se, ogni volta che qualcuno ci viene indicato come 'nemico', ci soffermassimo a riflettere, metaculturalmente, su che cosa c'è lo rende tale, almeno metà dei nemici scomparirebbe. Perché scomparisse anche l'altra, la stessa operazione dovrebbe essere compiuta da coloro cui noi veniamo indicati come nemici. È utopia questa o tra non molto diventerà una via obbligatoria per la sopravvivenza?